Dal 2018 vive in città

Dalla corte del dittatore siriano Assad fino ad Arona: una storia unica

E' fuggito dal suo paese e ora insegna

Dalla corte del dittatore siriano Assad fino ad Arona: una storia unica
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A poco più di un mese dalla caduta del regime di Bashar Al-Assad, la situazione in Siria resta molto delicata. A parlarcene è Nabil Al Lao, importante testimone dei fatti in quanto ha vissuto per una quindicina di anni alla “corte” di Hafiz Al Assad prima e del figlio Bashar poi.

Intervista

Nato in Siria, dopo il percorso di studi in lingue all’università di Damasco e un dottorato di ricerca a Lione in Francia, Al Lao è stato professore con vari incarichi all’università della capitale siriana. Fuggito dal suo paese, dal 2018 Al Lao abita ad Arona. «Già nel 2013 il potere era caduto perché c’era in atto una ribellione generalizzata su tutto il territorio siriano che Assad cercò di reprimere mandando i Servizi Segreti a sparare sulla gente – spiega Al Lao – una rivolta contro un regime corrotto economicamente e politicamente che era più che giustificata in un paese in cui una sola persona aveva in mano il destino e le ricchezze di tutti». E ancora: «In quegli anni la gente era in grande difficoltà economica con povertà diffusa e con i Servizi Segreti che controllavano la vita sociale siriana. Si pensi che già il padre fondatore della “dinastia”, a partire dagli anni ’70 aveva creato ben 13 corpi di Servizi Segreti, con il mito del presidente e in competizione tra loro, con un conseguente aumento delle crudeltà verso la popolazione. Hafiz, che aveva il culto della persona e si ispirava a Ceausescu, è stato quasi un faraone siriano. Fece erigere oltre 2000 statue in tutto il paese».

La caduta del regime che in oltre 50 anni ha affamato, asservito e terrorizzato la popolazione attraverso il partito Ba’th, sembra la fine di un incubo per i siriani. «Nelle prossime settimane, oltre alle fosse comuni che già sono state trovate, nel sud del Paese ne verranno scoperte delle altre con i resti di centinaia di migliaia di vittime», commenta Al Lao.

Quale è stato il suo ruolo presso la famiglia Assad?
«Il caso mi ha poi portato a diventare interprete di Hafiz, ruolo che ho ricoperto per due anni fino alla sua morte – spiega Al Lao – ma già nel 1998 ero stato trasferito nell’ufficio di Bashar per dargli la giusta istruzione. Non ero da solo, eravamo in 12 e il nostro compito era quello di prepararlo al suo futuro ruolo di capo di Stato. Alla morte di Hafiz sono rimasto alla corte del figlio fino agli anni 2011, 2012, quando a seguito della rivoluzione 4 milioni e 700 mila siriani, in massima parte donne e bambini, sono stati portati nel Nord Ovest del Paese al confine con la Turchia. Una massa di miserabili che oggi, divenuti uomini, sono tornati e sono mossi dal sacro fuoco della vendetta dei contadini offesi e perseguitati. La cosa bella è che sono siriani e non stranieri e quindi hanno a cuore il futuro del Paese. Sono stati accolti dal popolo come liberatori».

Perché se ne è andato dalla Siria?
«Ero sotto l’ala del potere, facevo parte della intellighenzia del Paese, lavorando come interprete e musicologo. Ero trattato bene perché avevano bisogno di me anche per la comunicazione e avrei potuto restare – spiega – ma non condividendo le idee e la violenza ho preferito andarmene e così ho perso i miei beni».

Dopo la fuga come è stata la sua vita?
«Da esule nel 2013 mi sono trasferito dapprima a Beirut e poi a Le Havre, dove ho insegnato per un paio di mesi. Durante la trasferta francese ho incontrato anche il presidente Hollande. Scaduto il visto stavo per far ritorno a Beirut, dove, per l’appunto, mi ero rifugiato in un primo momento, ma mia madre, in una telefonata, mi disse di non tornare perché mi stavano cercando. Fu così che mi stabilii prima a Invorio e poi a Gallarate e infine, dal 2018 ho scelto di vivere ad Arona».

Ha intenzione di tornare?
«Ormai sono italiano anche se profugo. E se nel 2013 avevo paura di rientrare, ora potrei farlo, ma meglio aspettare il momento giusto. In questi anni mi sono recato spesso a Beirut per riabbracciare i fratelli e la mamma».

Di cosa si occupa in Italia?
«Insegno francese nei corsi di laurea di Relazioni internazionali e interpretariato di varie università, ho imparato l’italiano da solo perché mi serviva per lavorare. Ho scritto anche tanti libri su vari argomenti».

Come vede la democrazia italiana?
«Il popolo italiano è un grande popolo e l’Italia un bellissimo Paese con una grande cultura. Però la democrazia italiana è caotica, mentre dovrebbe essere dinamica, ovvero costruttiva e creativa. Bisogna ascoltare e collaborare con l’opposizione invece di partecipare ai talk show. Ci vuole dialogo tra i partiti, aperto e non sempre oppositivo, in uno scambio reciproco, al di là delle differenze per il bene comune».

Il suo bilancio dell’esperienza da profugo?
«Purtroppo negativo perché non c’è alcun programma o struttura per integrare nessuno. Il vostro Paese non è stato capace di favorire e integrare nemmeno uno come me che ha dovuto darsi da fare per resistere e ciò grazie alle sue competenze e risorse personali. Finché ci saranno i gommoni ci sarà tanto da fare. Il problema dell’immigrazione è strutturale, manca un programma per integrare, che, partendo dalla formazione, prosegua con l’inserimento economico, a cui faccia poi seguito quello sociale».

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