Spunti di riflessione

La lettera di un'aronese: "Noi infermieri siamo forti, ma abbiamo bisogno di voi"

Federica Mancino parla di un'onda travolgente che però può essere superata tutti insieme

La lettera di un'aronese: "Noi infermieri siamo forti, ma abbiamo bisogno di voi"
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La lettera dell'infermiera Federica Mancino, di Arona, rivolta a tutti quanti stanno affrontando l'emergenza.

La lettera di un'infermiera

Federica Mancino, aronese, infermiera pediatrica a Monza, racconta di quella volta che ha rischiato di annegare travolta da un’onda e di come il virus sia un’onda che tutto può travolgere,. Ma insieme ci si può salvare. "Mai stata una brava nuotatrice. Anzi. Con l’acqua non ho un feeling particolare. Anni fa stavo per lasciarci le penne sul serio. Stavo seduta sul bagnasciuga, serena e felice. Il mare un po’ più mosso del solito. Ma non sembrava nulla di preoccupante. Ed ecco le prime onde. Forti. Sempre più forti. E in un attimo mi sono trovata lontana dalla sabbia calda che mi scaldava le mani, dall’acqua dolce che mi solleticava i piedi e dalla mia adolescenziale spensieratezza. Immersa. Senza via di fuga. Arti sempre più pesanti. Mi mancava il respiro. La mente annebbiata. E per la prima volta ho avuto paura di morire".

"Non siamo eroi"

"Mi rivolgo ai miei colleghi infermieri - prosegue la lettera - Quante volte avete sentito le parole:” sei veramente forte per poter fare questo lavoro, io non ce la farei mai!”. E ora mi rivolgo a voi altri e ai vostri occhi, che ora più che mai sono fissi sul nostro lavoro. Voglio approfittare di questa intimità che sembra essersi creata tra di noi, per svelarvi un piccolo segreto. Ebbene, spesso anche noi non ce la facciamo. Se fossimo stati delle macchine o degli eroi (è così che ci chiamate giusto?) sarebbe stata una vera e propria passeggiata; eppure, pensate un po’, siamo fatti esattamente come voi. E con “come voi” intendo dire con i vostri stessi sentimenti. Anzi, aggiungerei che gli stati d’animo che ci accomunano, in ospedale assumono una dimensione del tutto nuova e diversa; rimbalzano confusamente tra le pareti asettiche dei reparti e fanno un gran rumore. Nella testa. Nelle ossa. Nel petto. E’ sempre stato così, anche prima del tanto temuto covid. Ci sono momenti in cui la voglia di mollare prende il sopravvento. In cui, con la mente, vorresti essere già a Honolulu con mago Merlino per farti una quarantena in totale relax. Ma il fronte ti chiama. Il tuo dovere è quello di stare in trincea al tuo posto. Perché le tue mani sono armi potentissime. E indispensabili. Ci sono infermieri che passano ore bardati, in una condizione di disagio fisico incredibile. Ma non possono mollare. Mi ricordo la prima volta che mi sono vestita. Con quella maschera, dopo un solo quarto d’ora, mi sentivo soffocare. Respiro pesante, lacci che ti segnano il volto, mal di testa, e sensazione di autocombustione sotto gli strati impermeabili del camice. Il tutto condito dal terrore di prendere qualcosa e magari di trasmetterlo a qualcuno a te vicino".

Uno scritto che parla di coraggio e di paura

"E poi, in questo lungo percorso - continua il racconto - vedi e senti il peso delle prime famiglie che vengono separate. Dal primo vagito del loro bambino, dal primo picco febbrile di un nonno anziano, o addirittura nel momento del silenzioso saluto a questa terra. Un pensiero mi passa per la mente. Come staranno i miei? Non li vedo da tempo. E mia sorella? Occhi azzurri come il cielo e dolcezza infinita. Ma non posso mollare. Ed ecco che arrivi in reparto e fatichi a trovare la tua mascherina. Che succede? Non dovrei essere tutelata in tutto questo? Ogni giorno sono sempre più preoccupata e stanca. Le ferie sono saltate, le prime malattie richiedono ulteriori sforzi, al lavoro è un continuo cambiamento e c’è bisogno di elasticità mentale. Protocolli aggiornati di giorno in giorno, nuovi percorsi per trasportare i malati, nuove stanze di isolamento. Un sistema in rapida evoluzione e tu, stanca o meno, devi stare al passo. Ma non mollo. Ed ecco che arriva quel giorno. Ho finito di lavorare. Percorro a piedi la strada, più in fretta del solito. Un senso di assurda e insensata vergogna mi assale per essere una delle poche persone in giro. E chi spiega loro che esco dall’ospedale e non mi sto facendo una passeggiata? Certo, le mie occhiaie, il mio sguardo perso e il mio passo veloce, ma stanco, potrebbero essere dei segni riconoscibili. Ma ho imparato che l’attenzione è selettiva. E che le persone vedono solo quello che vogliono vedere. Finalmente chiudo la porta alle mie spalle e tiro un respiro di sollievo, quasi come se, con quel giro di chiave, avessi tolto alle mie ansie il diritto di potermi disturbare. Sola. Via le scarpe, e subito in cucina. La fame al termine di un turno da 12 ore ti fa venire delle fitte incredibili allo stomaco. Accendo la tv, e come ipnotizzata, rimango con lo sguardo fisso su quel farmacista di Bergamo, che con le lacrime agli occhi sta chiedendo sommensamente aiuto. Ed è così che crollo, senza un perché, come quella volta in cui l’acqua mi ha tirato inaspettatamente giù a fondo. Piango. Mollo il colpo e mi siedo. Perché tutto sembra all’improvviso troppo pesante per me. Un’onda ci ha investiti, più grande di quanto pensassimo. E sta facendo piazza pulita".

Ma l'onda che ci travolge può essere affrontata

"Ma se dall’esperienza si impara - si conclude la lettera - so com’è andata a finire la mia brutta vicenda al mare. Vi ricordate di occhi azzurri? Chiara? Mia sorella. Beh, quella volta, non ha esitato a raggiungermi e, con molta fatica, mi ha riportata a riva, sfidando le risacche e la forte corrente. Non potete capire la gioia che ho provato non appena ho accarezzato la sabbia sotto i piedi. E li ho capito che la vita mi aveva dato una nuova opportunità. Cari quaranteniani, se cosi si può dire, supportatevi l’un l’altro, sopportate la noia, riscoprite la bellezza di stare in famiglia o soli con voi stessi. Sarà con l’unione, a un metro e più di distanza, che ne verremo fuori. Che toccheremo di nuovo quella sabbia e ne godremo come mai abbiamo fatto in tutta la nostra vita. Ma soprattutto ricordatevi sempre di noi infermieri. Perché è vero, siamo forti, ma non invincibili. E lo stress e la tensione giocano talvolta brutti scherzi, facendoci crollare malamente a terra. La sofferenza altrui è un macigno. Più della noia, più delle restrizioni, più di tutto il resto. Ed è in quei momenti che vi chiediamo di scendere in campo e starci vicino. Abbiamo bisogno di voi più di quanto crediate".

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