Il diario di viaggio di Mamre Borgomanero in Bosnia sulla rotta dei migranti
Il racconto di Mario Metti di ritorno dall'ultimo viaggio umanitario in Bosnia
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I volontari di Mamre Borgomanero sono appena tornati dall'ultimo viaggio per portare aiuti ai migranti della rotta balcanica, bloccati ai confini con l'Europa.
Il diario di viaggio di Mamre Borgomanero sulla rotta balcanica
Sono tornati da qualche giorno dall'ultimo dei viaggi umanitari i volontari di Mamre Borgomanero. Come sempre portano ai migranti bloccati in Bosnia, ai confini con l'Europa, aiuti di ogni genere. Aiuti per i quali continua la raccolta: i volontari borgomaneresi infatti partiranno ancora nel mese di dicembre alla volta dei campi profughi bosniaci.
Le riflessioni di Mario Metti
Mentre i giornali ci informano che Bill Gates è ritornato primo in classifica tra i miliardari e che in Algeria un solo uomo ha un patrimonio superiore al Pil del suo paese; mentre il quotidiano più diffuso del Piemonte mette sullo stesso piano Candiolo, eccellenza per la cura dei tumori, e Cameri, eccellenza per la fabbrica degli F35 portatori di morte, in queste ore una burrasca ha scoperchiato numerose tende del campo profughi di Vucjak, in Bosnia, coprendo di fango tutto il terreno. Con Claudio Casazza e Giuseppe Bottini del comitato di Arona della Croce Rossa Italiana che ha messo a disposizione anche un furgone e con alcuni volontari di Mamre, Giorgio Fornara, Gabriele Sala, Gabriele Pezzotta e Sergio Vercelli, siamo stati due volte in queste ultime settimane a Bihac e al campo profughi di Vucjak per portare la solidarietà offerta dalle nostre comunità, e per incontrare, parlare e ascoltare i rappresentanti della Croce Rossa locale (che a metà novembre ha consegnato un riconoscimento a Mamre) e soprattutto le persone che abitano in quella che è una discarica a cielo aperto: il campo di Vucjak. Qui vivono circa ottocento persone provenienti dal Pakistan, dall’Afghanistan, dal nord dell’India, dal Bangladesh e dalla Siria, ma il numero varia continuamente perché ogni giorno in venti-trenta partono attraverso i boschi per tentare il game, il passaggio in Croazia, e un numero pari o superiore arriva a piedi passando dall’abitato di Bihac, distante una decina di chilometri. Pochi sono coloro che riescono a passare indenni il confine croato, tanti sono quelli che vengono fermati, derubati delle poche risorse che portano: gli viene rotto il cellulare per impedire che possano orientarsi e comunicare, vengono picchiati, a volte torturati e privati di scarpe e calze, e rimandati in territorio bosniaco. La situazione nel campo, nel tempo intercorso tra i nostri due viaggi, è peggiorata tantissimo. Il freddo pungente costringe le persone a scaldarsi come possono, accendendo fuochi fuori e dentro le tende e bruciando tutto quello che trovano: cartoni, plastica, piccoli legnetti recuperati nel bosco; e, se all’aria aperta può andare bene tutto, nelle tende l’aria è densa di un fumo acre, veleno per la salute. La fanghiglia che ricopre il terreno sporca le povere coperte e i tappeti adagiati nelle tende, le docce all’aperto, ancora utilizzate nonostante l’acqua gelida, servono anche per lavare i vestiti nella stagione calda, ma adesso sono pochi i temerari che si lavano vestiti e poi strizzano all’inverosimile il vestiario.
Il tutto porta a un peggioramento delle condizioni igieniche con casi di scabbia e di altre malattie. In una delle tende, solo in un angolo, seduto su una sudicia coperta, vestito solo di una tuta leggera, con uno sguardo perso nel vuoto, abbiamo incontrato Bilal, ragazzino afghano di 14 anni, presente nel campo da cinque mesi con il papà, in quel momento assente. Un altro ragazzo di 15 anni era invece in coda con gli altri uomini in attesa della distribuzione della colazione, due fette di pane e una scatoletta di sardine.
Il volto, gli occhi di questi giovanissimi, lasciava trasparire la loro infanzia, la loro fanciullezza negata, e contrastava con lo sguardo dei giovani uomini, in particolare quelli che con lo zaino in spalla che si apprestavano a tentare il passaggio della frontiera. Nei loro occhi e nelle loro parole leggevi e ascoltavi ancora la speranza di poter arrivare in Europa, l’Europa dei diritti, per raggiungere il parente, il conoscente in Germania, in Belgio o in Svezia. Non sanno ancora che l’Europa, le Nazioni Unite, dopo aver pagato tre miliardi di euro al presidente Erdogan per bloccare le frontiere della Turchia, paga adesso i governi della Bosnia e della Croazia per militarizzare le frontiere, per impedire che queste persone possano arrivare in Europa. Possiamo fermarci un momento e farci delle domande? Di fronte a questa perdita di umanità non si può non dire niente; l’ingiustizia è certo di chi la commette, ma anche di chi assiste e non fa nulla per fermarla e si gira dall’altra parte stando in silenzio. Come cittadini, il riferimento fondamentale è la Costituzione del 1948 e lì troviamo le istruzioni necessarie per costruire una società dei diritti, della dignità, e per dire “no” ai rigurgiti di razzismo e fascismo che affiorano pesantemente. Lì troviamo il dovere di denunciare questa perdita di umanità, senza cessare mai di chiederci come vorremmo essere trattati se al posto dei migranti ci fossimo noi. Come cristiani il riferimento è Gesù che ha vissuto dalla parte dei poveri, dei deboli, degli oppressi, è il Vangelo di Mt 25, 35-36: «Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato...». Cosa possiamo fare? Informarci, desiderare di conoscere e far conoscere questa realtà per capire in che mondo stiamo vivendo e quale mondo vogliamo consegnare ai nostri figli. Papa Francesco nel messaggio per la 105ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato scrive citando il Vangelo di Luca: «Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione» (Lc 10, 33). Non si tratta solo di migranti, dice il papa, «si tratta della nostra umanità».