Cittadinanza italiana per Ahmadreza Djalali: partita la petizione
Da novembre non si hanno più notizie del ricercatore novarese d’adozione.

La petizione ha lo scopo di sostenere la richiesta di cittadinanza in favore del ricercatore iraniano AHMADREZA DJALALI, oggi nel braccio della morte in Iran senza un giusto processo in violazione di ogni più elementare diritto di difesa, il quale ha vissuto in Italia ed ha lavorato presso la sede novarese dell'Università del Piemonte Orientale ed il centro d'eccellenza CRIMEDIM (Centro di Ricerca in Medicina d’Emergenza e dei Disastri).
La richiesta
Con lettera inviata al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro dell'Interno e al Ministro degli Esteri, AIGA Nazionale (Associazione Italiana Giovani Avvocati), AIGA Novara (Associazione Italiana Giovani Avvocati Sezione di Novara), Comune di Novara, Amnesty International Italia, Crimedim (Centro di Ricerca in Medicina d’Emergenza e dei Disastri), Università del Piemonte Orientale e FIDU (Federazione Italiana dei Diritti Umani) hanno chiesto la concessione della cittadinanza al medico iraniano ex art. 9 comma 2 L. 5 febbraio 1992 n.91, per gli importanti servizi resi alla Patria.
Il caso
Lo scorso 24 novembre 2020, con una breve telefonata alla moglie Vida Mehrannia, ha annunciato di essere stato portato “nel braccio della morte” nel carcere iraniano Raja’i Shahr a Karaj e che la pena capitale, alla quale era stato condannato il 21 ottobre 2017, con lettura del verdetto di fronte ad uno solo dei suoi avvocati, senza poter avere nemmeno copia della sentenza con la quale veniva comminata questa pena estrema, sarebbe stata eseguita entro una settimana.
Del verdetto si sa solo che nei suoi confronti la sezione 15 della Corte Rivoluzionaria di Teheran lo ha condannato oltre la pena capitale a pagare 200.000 euro di multa per “corruzione sulla terra” (efsad-e fel-arz) dopo un processo gravemente iniquo, nel quale è stato violato ogni più elementare diritto di difesa.
A parere del Tribunale Iraniano, Ahmadreza avrebbe lavorato come spia per Israele nel 2000. Secondo uno dei suoi avvocati, come riportato da Amnesty International, il tribunale non ha fornito alcuna prova per giustificare tali accuse.
Nel corso di uno dei pochi messaggi che è riuscito ad inviare dal carcere, mentre era in isolamento, egli ha affermato che gli è stato negato l’accesso ad un avvocato ed è stato costretto a fare “confessioni” davanti ad una videocamera leggendo dichiarazioni pre-scritte dai suoi interrogatori. Ha detto di essere stato sottoposto a pressioni intense con tortura e altri maltrattamenti, incluse minacce di morte, anche verso i figli che vivono in Svezia e la sua anziana madre che vive in Iran, al fine di fargli “confessare” di essere una spia.
Ahmadreza Djalali ha negato sempre le accuse a proprio carico e sostiene che siano state fabbricate dalle autorità iraniane.
In una lettera dell’agosto del 2017, scritta dall’interno della prigione di Evin, afferma che sono state le autorità iraniane nel 2014 a chiedergli di “collaborare con loro per identificare e raccogliere informazioni provenienti dagli Stati dell’Ue. La sua risposta è stata “no” e ha detto loro: “sono solo uno scienziato, non una spia”.
Il 24 ottobre 2017, durante la sua conferenza stampa settimanale con i giornalisti, il procuratore generale di Teheran, Abbas Ja’fari Dolat Abadi, ha detto, senza specificare il nome di Ahmadreza Djalali, che “l’imputato” aveva tenuto diversi incontri con l’agenzia di intelligence israeliana Mossad e che forniva loro informazioni sensibili su siti militari e nucleari iraniani in cambio di soldi e della residenza in Svezia.
Dal 24 novembre 2020 il ricercatore non ha avuto più alcun contatto nè con la famiglia, nè con l'avvocato. Si sa solo che attualmente è in regime di carcere duro, nel braccio della morte e che la pena di morte alla quale era stata condannato è stata sospesa due volte da dicembre ad oggi.