Ahmadreza Djalali è "sparito": cresce l’angoscia per lo scienziato detenuto in Iran
Ha lavorato al Crimedim di Novara: dopo il trasferimento dal carcere di Evin, nessun contatto con la famiglia

La situazione di Ahmadreza Djalali, medico e ricercatore con cittadinanza svedese che ha lavorato per tre anni al Crimedim di Novara, si fa sempre più drammatica. In carcere in Iran dal 2016 con l’accusa di spionaggio per conto di Israele, è stato condannato a morte al termine di un processo irregolare basato su confessioni estorte con la tortura.
Ahmadreza Djalali è "sparito"
Dopo settimane di crescente tensione tra Iran e Israele, aggravate dal recente attacco Usa ai siti nucleari iraniani, il 23 giugno Djalali è stato trasferito dalla sua cella nel carcere di Evin, a Teheran. A renderlo noto è la Edelstam Foundation, organizzazione umanitaria svedese: gli è stato ordinato di raccogliere tutti i suoi effetti personali e da quel momento è trattenuto in isolamento, senza possibilità di contatti con la famiglia.
La sua ubicazione attuale è sconosciuta, e il timore è che possa essere in attesa dell’esecuzione.
Appello della moglie al governo svedese
Il giorno prima del trasferimento, il 22 giugno, Vida Mehrannia, moglie di Ahmadreza, ha inviato una lettera accorata al primo ministro svedese Ulf Kristersson, chiedendo un intervento urgente della Svezia e dei suoi partner internazionali per ottenere il rilascio del marito: “Salvatelo prima che sia troppo tardi”.
Pena di morte “automatica”
Il caso Djalali si inserisce in un quadro più ampio: dal 13 giugno, quando Israele ha attaccato l’Iran, le autorità iraniane hanno arrestato numerose persone con accuse di collaborazione con il nemico. Il Consiglio supremo per la sicurezza nazionale iraniano ha promesso “reazioni decisive”, mentre il parlamento ha accelerato l’approvazione di un provvedimento che facilita l’applicazione automatica della pena di morte per chi è accusato di spionaggio o cooperazione con governi ostili, in primis Usa e Israele.
Insieme ad Ahmadreza Djalali, almeno altre sette persone sono nel braccio della morte, condannate dopo processi irregolari. Le loro esecuzioni potrebbero avvenire in qualsiasi momento.
La comunità scientifica internazionale, le organizzazioni umanitarie e numerosi governi occidentali continuano a chiedere la liberazione di Djalali, simbolo di una repressione che, oggi più che mai, rischia di trasformarsi in tragedia.