La storia del camerese che condivise la prigionia nel lager con Guareschi
Il racconto del figlio: "Quando è tornato a casa, un uomo alto quasi un metro e novanta, pesava 45 chili: neppure sua madre l’ha riconosciuto"
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«Mio padre Daniele è stato nel lager di Sandbostel e fra i 10mila italiani c’erano anche Giovannino Guareschi e Gianrico Tedeschi». E’ un fiume in piena Guido Bianchi, 64 anni, residente a Cameri nel ripercorrere con la memoria gli anni di prigionia di suo padre nell’estremo nord della Germania.
Una storia raccolta negli scorsi mesi dalla giornalista del Corriere di Novara Vittoria Passera e che vi proponiamo nella giornata di oggi, 27 gennaio, ricorrenza internazionale istituita per commemorare le vittime dell'Olocausto.
La storia del camerese imprigionato nel lagher con Giovannino Guareschi
Bianchi ha con se' le “Note di prigionia” che il padre aveva scritto di nascosto in matita con grafia minuta e con la speranza che i soldati nazisti non se ne accorgessero. Un cimelio prezioso per la storia, non solo per quella della famiglia Bianchi, ma anche per quella scritta con la S maiuscola. Fra le testimonianze che fanno accapponare la pelle e salire il magone in gola a Guido, ci sono anche momenti legati a Guareschi, alla stesura del Racconto di Natale letto nel 1944 da Gianrico Tedeschi nel campo di prigionia.
L’armistizio dell’8 settembre 1943 segna un momento tragicamente importante anche per la sua famiglia?
«Mio padre Daniele (1920-1971) era tenente e poi capitano di Fanteria nel III reggimento Alpini Pinerolo del battaglione Fenestrelle di Torino. Era in stanza nel Montenegro, si era arruolato volontario falsificando la firma di papà (perché lui era minorenne, NdA) per entrare nell’Esercito. Voleva fare il carrista, ma essendo troppo alto - 1 metro e 86 - era stato mandato negli Alpini. Aveva fatto la scuola militare di Aosta diventando ufficiale. Poi era partito per l’Albania; dell’armistizio dell’8 settembre non sapeva nulla in un primo tempo. Poi c’è stato lo smarrimento: chi era alleato fino al giorno prima è diventato il nemico il giorno dopo. A meno che non si aderisse alla Rsi. A quel punto i tedeschi lo hanno catturato il 14 settembre a Castelnuovo (Montenegro). Lui e i suoi uomini vengono radunati, sopra le loro teste volano gli Stuka tedeschi con le loro sirene e i soldati italiani sono costretti a consegnare le armi. Gli ufficiali vengono separati dai soldati semplici e trasportati sui carri bestiame».
Un viaggio in cui vengono trattati peggio degli animali...
«Erano 65 per carro ed erano costretti a stare sdraiati sullo stesso lato perché erano talmente stipati che non potevano girarsi. Un secchio come latrina e per i tre giorni di viaggio non hanno toccato un goccio d’acqua. La prima tappa è stata un campo in Polonia e solo dopo sono arrivati a Sandbostel, nel nord della Germania. C’erano militari di tutte le nazioni, gli italiani erano 10mila».
C’era una “gerarchia di trattamento” per i prigionieri.
«Quelli trattati “bene” erano gli inglesi e gli americani. A scalare i francesi, i belgi, i serbi, i greci, gli italiani e i russi. Per questi ultimi non veniva applicato neppure il trattato di Ginevra sui prigionieri di guerra. Questo dà l’idea di come venissero trattati “i nostri” che facevano parte dei 600mila “traditori” che non avevano aderito alla Repubblica sociale».
Suo padre era nella “Piccola Belsen” con due nomi illustri. E’ stato importante per lui...
«Nel lager, ribattezzato appunto “La piccola Belsen”, c’erano anche Giovannino Guareschi e Gianrico Tedeschi. Guareschi nel ‘44 ha scritto La favola di Natale ispirandosi al figlio Alberto. A leggerla, nella notte di Natale, è stato Tedeschi. E come prefazione del libro c’è proprio il ricordo scritto da mio padre. Non riesco a leggerla perché l’emozione è troppo forte. (.., in un’oscura baracca di lager, a qualche migliaio di km da casa mia, ascoltavo da uno di noi, prigioniero come me e con me, il racconto di questa favola (...) La felicità di aver fiducia di nuovo nell’avvenire, di veder rinascere negli affetti lo scopo della vita, della sofferenza e della gioia, è tanto grande da non potervi quasi credere... Daniele, Natale 1946)».
Che ricordo ha di suo padre?
«Pochi, è morto che avevo 10 anni, ho i racconti che mi facevano mia madre e la tata. So che in un’occasione c’era stato un raduno o un momento simile a Torino e mio papà e Guareschi erano andati insieme. Tornando a casa, all’epoca vivevamo a Castellanza (Va), ci si era accorti che uno dei due aveva dimenticato mi pare una giacca e così hanno rifatto avanti e indietro. So che quando mio padre è morto gli hanno riscontrato delle lesioni polmonari derivanti probabilmente dalla prigionia. Ho saputo che tanti sono deceduti fra i 50 e i 60 anni con problemi di quel tipo forse per le docce fredde e il trattamento che era riservato loro. Quando è tornato a casa, un uomo alto quasi un metro e novanta, pesava 45 chili. Neppure sua madre l’ha riconosciuto quando si è presentato alla porta... erano sei mesi che non riceveva notizie e pensava fosse morto. Ma era talmente deperito che neppure quando se l’è visto davanti ha capito che fosse lui».
Negli aneddoti si parla della Resistenza. Che fu anche “resistenza del pane”.
«Purtroppo di questo aspetto si parla poco: gli ufficiali erano trattati peggio dei soldati semplici che avevano “meno colpe” perché ubbidivano ai loro superiori. Quindi il comportamento degli ufficiali era giudicato in maniera molto più grave. Nel lager il pane per i prigionieri veniva millimetrato in modo che le fette fossero tutte uguali. Poi si metteva il filone davanti al prigioniero e si chiedeva se fosse disposto ad allearsi con i tedeschi: a chi diceva di no veniva razionata la fetta di pane. E si proseguiva così: mio padre non ha mai aderito alla Rsi e la sua fetta di pane si è fatta sempre più piccola. Ha visto uomini che nella disperazione della fame mangiavano i topi che scorrazzavano nel lager. Nel suo diario c’è un passaggio in cui dice che piuttosto che mangiare i topi avrebbe preferito “restituire i miei 47 chili alla terra”».
A Guido Bianchi il magone si ferma in gola, richiude il diario e lo inserisce in una busta per custodirlo al meglio. Gli occhi si fanno lucidi, poi un sorriso appena abbozzato e il dito che si sposta su una foto seppiata in cui suo padre è lì, seduto, con la schiena appoggiata a un vagone. Il ricordo sfocato di un padre che è stato testimone della pagina più brutta della Storia dell’umanità, una Storia scritta con il pennino intinto nel calamaio dell’orrore e del sangue.