Testimonianza

"La mia vita con mio padre e l'Alzheimer: manca un supporto reale per le famiglie"

Il racconto di una giovane donna novarese: "La speranza è che i servizi possano migliorare e si presti maggiore attenzione a questi pazienti"

"La mia vita con mio padre e l'Alzheimer: manca un supporto reale per le famiglie"
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Un uomo. Un padre. Una figlia. Una malattia che divora e la vita che diventa difficile.

Il racconto

E' una importante testimonianza quella raccontata dal settimanale NovaraOggi sul numero del 7 aprile da una giovane donna novarese. «Mio papà ha l’Alzheimer da 6-7 anni e vive da solo - racconta la figlia - Nelle prime fasi della malattia era ancora autosufficiente nonostante fosse necessario gestire le sue finanze e fare dei controlli periodici al centro Uva (Unità Valutative Alzheimer) di Novara. La situazione negli ultimi 2-3 anni è peggiorata e man mano mio padre sta perdendo tutte le autonomie personali: prima ha smesso di farsi la barba, poi ha smesso di lavarsi, di prepararsi da mangiare, di ritirare le cose nel posto giusto, di prendere le sue pastiglie, di vestirsi in modo corretto per la stagione e l’occasione. A oggi la situazione è questa: non prende le pastiglie da solo, soffre di afasia (fa discorsi che contengono principalmente non parole e che non seguono un filo logico), non cura né se stesso né la casa».

La figlia (che studia e lavora) e la ex moglie (che lavora a tempo pieno) si alternano per andare a lavarlo, cambiarlo, pulire l’abitazione, cercando di controllare la sua alimentazione e quella del cane anche se la tendenza è quella (per entrambi) di nutrirsi solo di biscotti.

"Spesso si perde e non sa come tornare a casa"

«Nell’ultimo anno - continua la figlia - portando a passeggio Whisky spesso si è perso e non sapeva come tornare a casa, quindi, a qualsiasi ora è necessario essere reperibili e andare a recuperarlo in giro per la città; per rendere più agevole questo passaggio ho messo due AirTag (uno sulle chiavi di casa e uno sul collare del cane) in modo da poterli sempre geolocalizzare».

Una situazione non facile da gestire e non facilitata dai servizi dedicati a chi soffre della malattia e ai familiari. Il novarese, al momento, è sottoposto a visite periodiche all’ambulatorio Uva; usufruisce del servizio di mensa domiciliare e del passaggio, per mezz’ora al giorno, delle operatrici dei servizi comunali che somministrano una parte delle 7 pastiglie che deve prendere (e che sotto consiglio del medico dovrebbero essere date almeno in 5 momenti diversi della giornata).

Le difficoltà incontrate con il servizio a domicilio

«Abbiamo iniziato a usufruire del servizio a domicilio nel 2020 e per i primi tre mesi sono stata chiamata praticamente tutti i giorni da mio papà o dalle operatrici: non sapevano gestirlo. In questi casi non basta la simpatia, l’educazione o la buona volontà: serve una preparazione specifica per lavorare con chi è affetto da Alzheimer. Anche perché la terapia non va dimenticata, invece, se mio padre non è in casa, le operatrici non riferiscono il fatto e le pastiglie non vengono prese».

«A novembre, a dicembre e a gennaio abbiamo chiesto che venissero aumentati i passaggi per gestire l’intera terapia - prosegue il racconto - ma solo al 30 marzo è arrivata l’ok dai servizi sociali del Comune. Nel mentre abbiamo dovuto pagare una persona affinché effettuasse questi passaggi». Anche il servizio mensa, per quanto garantisca un pasto bilancia, ho una modalità gestionale poco compatibile con le esigenze i questi malati: «Arrivano di corsa, suonano e lanciano in mano alla persona il contenitore con il pasto. Il giorno seguente arrivano e dovrebbe avvenire uno scambio: mio papà dà il contenitore vuoto del giorno prima, il servizio mensa dà il contenitore con il pasto della giornata. Gli operatori hanno risposto in malo modo o si sono dimostrati seccati perché mio papà non sapeva dove fosse il contenitore vuoto, ma come è intuibile, si trattava di una manifestazione della malattia».

La richiesta di un "aiuto reale"

Il «caso» è stato affidato a una assistente sociale e poi a un’altra, nessuna delle due mai incontrata di persona. «Sono arrivata, la prima settimana di gennaio, a scrivere una mail accorata, chiedendo un aiuto vero, reale - continua la giovane novarese - Ho ricevuto una telefonata sette giorni dopo (era in vacanza...), il tono era scostante e la risposta un “non dipende da me”».

La questione dei sussidi

Un altro nodo da districare è quello legato ai sussidi: l’uomo percepisce la pensione minima e il reddito di cittadinanza di 150 euro. Nonostante sia stato dichiarato invalido al 100% non riceve la pensione di invalidità nè l’accompagnamento. «Per la prima serve un punteggio di 101 e ci è stato consigliato di presentare un ricorso tramite un avvocato che dovremmo pagare di tasca nostra e anche il medico ci ha consigliato di non presentare domanda ora, ma di aspettare che la situazioni sia ancora un poco più grave. Può essere giusto tutto questo?».

Se tutto questo riguarda il malato, non ci sono servizi migliori che supportino i familiari: «Tempo fa ho avuto bisogno di aiuto proprio per affrontare questa situazione: avevo 19 anni, provavo angoscia e sentivo un senso di responsabilità fortissimo; ogni volta che vedevo mio padre o stavo con lui per più di 40 minuti scoppiavo a piangere o ci litigavo come se servisse a qualcosa. Poi stavo male per giorni. Ho chiesto consiglio all’ambulatorio Uva per un supporto e mi è stato risposto di contattare l’associazione Ama Novara che mi ha indirizzata a uno psicologo. Un professionista che davvero ci ha aiutati sia nei pirmi tre incontri gratuiti sia nei colloqui successivi che mi ha “regalato” dal momento che non potevo permettermi di pagarli».

"Anche le famiglie hanno bisogno di supporto"

Uno dei problemi è proprio questo: «Perché non è previsto un supporto gratuito per le famiglie? Ci sono giorni in cui non credo di poter continuare a sopportare tutto questo peso. Ci sono giorni in cui mi sono arresa e sono arrivata a chiamare in lacrime Ama. La signora che mi ha risposto è stata gentile, mi ha ascoltata ma l’unica cosa che ha potuto dirmi è stata “ha ragione, il personale che offrono i servizi pubblici non è abbastanza formato e i servizi non sono sufficienti”. Ma io cosa me ne faccio di questa risposta? Una sera abbiamo avuto bisogno di portare mio papà al pronto soccorso. Nonostante ci fosse un documento che attestasse la diagnosi di mio papà, non ci hanno fatto entrare. Abbiamo atteso fuori, ma dopo qualche ora mi ha chiamato mio papà dicendomi che era uscito da solo (da una porta sul retro) ma non sapeva dove fosse. Dopo 20 minuti l’abbiamo individuato: aveva ancora la farfallina del prelievo attaccata. Una volta tornati al pronto soccorso ci hanno concesso di entrare. Questo per far capire cosa significhi vivere con questa malattia e con chi ne soffre».

L’elenco delle mancanze e degli episodi è lungo e doloroso: «Questa è la mia storia, ma purtroppo temo sia la storia di molti, per questo ho deciso di raccontare, nella speranza che i servizi possano migliorare e si presti maggiore attenzione a questi pazienti».