Intervista

Pippo Ricci racconta la sua straordinaria carriera e il suo legame con Novara

Stasera, lunedì 7 aprile, alle 18.30, al PalaDonBosco il capitano dell’Olimpia Milano e della nazionale presenterà il suo libro

Pippo Ricci racconta la sua straordinaria carriera e il suo legame con Novara
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Pippo Ricci è un nome famoso del mondo del basket. E questa sera, lunedì 7 aprile 2025, alle 18,30, a Novara, in occasione dei 45 anni di fondazione del Novara Basket, al PalaDonBosco di viale Ferrucci 33, il cestista, capitano dell’Olimpia Milano e della nazionale, presenterà la sua autobiografia “Volevo essere Robin - Il mio viaggio fino a qui”.

Pippi Ricci racconta la sua straordinaria carriera

Un personaggio tutto da scoprire. Lo ha intervistato per il Corriere di Novara il direttore Sandro Devecchi mettendo in luce anche il legame con coach Meo Sacchetti, il novarese più famoso nel mondo del basket.

«Non posso che ringraziare Meo Sacchetti  - spiega Ricci -perché è stato fondamentale per la mia crescita cestistica e umana. E’ arrivato nel momento giusto, mi ha lanciato in serie A e in Nazionale. Certo quando sono arrivato a Cremona, Meo aveva il doppio ruolo di tecnico della Vanoli e coach dell’Italia, ma lui ha influito molto anche sulle mie scelte future. Mi ha stimolato, mi ha spinto a migliorare continuamente per ottenere il massimo. Meo ha questa capacità incredibile di capire i giocatori e, soprattutto, intuire che momento stanno vivendo. Faccio un esempio: una volta mi ha cambiato dopo un inizio disastroso, francamente pensavo di vedermi seduto in panchina tutta la partita. Invece, mi ha ributtato nella mischia negli ultimi tre minuti e tutto è andato bene! E poi mi ha convocato per le Olimpiadi, ho indossato la maglia dell’Italia, più di così! Sono tanti i momenti che condiviso con lui e tanti gli insegnamenti che mi ha dato. E’ per me un secondo padre».

Partiamo dal titolo del libro, “Volevo essere Robin.”

«Intanto mi piaceva creare curiosità attorno al libro con un titolo particolare. Ma tutto nasce da una foto di me e mio fratello, piccolini, con addosso dei costumi cuciti su misura da nostra madre: lui era Batman, appunto, e io Robin. Mio fratello, 17 mesi più grande di me, come eroe ed io come spalla. D’altronde la mia carriera racconta che si può diventare supereroi anche senza stare sempre sotto i riflettori, solo qualche volta, e, per il resto, facendo il lavoro oscuro, ma utile. Quello che poi, ad un’analisi più attenta, risulta determinante. E’ un messaggio rivolto ai giovani: si possono realizzare i sogni, raggiungere obiettivi anche senza essere Batman».

Il rapporto con il tuo corpo è sempre stato problematico. Nel libro ti definisci “Cicciotello” da adolescente

«Ho odiato il mio corpo. Ho stampato in mente il giorno in cui sono salito sulla bilancia e ho letto 121 chili: avevo 13 anni! Mi sentivo pesante, inadatto. Guardavo i miei compagni, mi sembravano tutti belli e muscolosi. Io invece mi vergognavo a mostrare il mio corpo, al mare in costume o sotto la doccia. Ho sempre fatto molta fatica ad accettare questa situazione e per risolverla ho messo in campo tutta la mia determinazione, mi sono sottoposto ad una serie incredibile di sacrifici, digiuni e quant’altro. Ma ero desolatamente solo».

La famiglia non ti ha aiutato?

«Ho sempre cercato di mascherare il mio malessere, tendevo a risolvermelo da solo. Sbagliando. Nel libro racconto di un momento preciso della mia vita in cui mi sono guardato allo specchio e mi sono detto “adesso tocca a te, non ti può aiutare nessun altro”. Invece adesso direi di che chiedere aiuto non vuol dire essere deboli, ma vuol dire iniziare ad affrontare un problema per risolverlo».

Poi quel corpo che non ti piaceva è cambiato, quando?

«Il turning point è legato ad una nutrizionista che ho incontrato a Casalpusterlengo, dove mi sono trasferito a 20 anni, quando mi sono reso conto che non potevo risolvere il problema da solo, che dovevo aprirmi a ciò che non conoscevo, che esistevano cose fuori dal mio controllo: così sono maturato, sono diventato uomo, perché ho chiesto aiuto per risolvere quel determinato problema. Il passo decisivo è proprio stato quello di chiedere aiuto: non mangiavo di meno, ma mangiavo meglio. Di pari passo migliorava anche il mio rendimento».

E sul quel corpo un tatuaggio particolare...

«Sotto il costato ho un numero 8 con le ali e, al centro, la stella, simbolo della Stella Azzurra. E’ il ricordo di Mario, con cui ho condiviso in simbiosi tre anni della mia vita a Roma, vittima di un incidente stradale. Indossava il numero 8 perché io gli avevo fregato il 14! E’ stato il mio primo tatuaggio, mi sentivo di farlo per ricordarlo. Mi è servito anche per affrontare il lutto che non volevo diventasse un tabù. A parlarne anche adesso mi emoziono, ma i lutti sono importanti. Pensi sempre che non capitino a te, poi quando arrivano sono devastanti. Non ero pronto allora ad affrontarlo e non lo sono ancora adesso. Ci penso sempre e porto sempre Marietto con me. Primo di ogni partita il mio pensiero va a lui».

Dicevi del tuo trasferimento a Roma, a 16 anni, alla Stella Azzurra

«La chiamata della Stella Azzurra mi ha fatto sentire importante. Stare sotto i riflettori significava per me uscire dal guscio, scrivere un altro tipo storia. Accettai quindi di lasciare la mia città, Chieti, la famiglia, i miei amici, decisi di spostarmi: una scelta che in un certo senso ho sottovalutato, non calcolando che era una separazione reale. Ci ho pensato solo molto tempo dopo e mi sono reso conto di aver rinunciato a tante cose per amore del basket».

Rimpianti?

«Tornassi indietro rifarei tutto. Certo, l’arrivo è stato abbastanza traumatico: ero sovrappeso e con le stampelle, reduce da un infortunio. In realtà fu proprio durante il periodo alla Stella Azzurra che entrai in modalità soldato: capii che potevo fare un passo decisivo solo diventando un atleta al 100%. Cominciai quindi a mettere il focus sulle cose più importanti: mangiare bene, riposare bene, allenarsi bene. Certo mi sono costate care e, devo dire, non so se farò fare questa esperienza ai miei figli».

Come sei uscito dai momenti difficili?

«Nessun alibi. Mi sono rifugiato nel lavoro in palestra, così come mi sono rifugiato nello studio quando mi bocciavano agli esami all’università. Ho creduto in me stesso e ho lavorato duro perché il lavoro paga, prima o poi. L’importante è stato non mollare quando vedevo tutto nero e mi è capitato tante volte».

Applicando il tuo mantra “farlo accadere”, nel 2023 è arrivata la laurea.

«In assoluto uno dei giorni più belli della mia vita. Anche in questo caso, per me la bellezza sta nel percorso: ci ho messo tanto tempo, sono arrivato al traguardo a 30 anni, magari dando un esame ogni sei mesi, chiudendo sessioni con pochi crediti o ripetendo cinque volte lo stesso esami. D’altronde giocando a basket era difficile fare altrimenti: ho cambiato tre volte università in base alla squadra in cui militavo, chiedevo i permessi per dare gli esami. Inoltre, a matematica, ogni esame è scritto e orale. Devi studiare, sennò non passi. Una tesi complicata. Considero la matematica il tratto razionale del mio cervello. Ricordo benissimo quel giorno, sono partito all’alba da Tel Aviv dove avevo giocato in Eurolega, il volo fino a Milano e, poi, di corsa in auto a Bologna per laurearmi davanti a miei amici e alla mia famiglia. Abbiamo fatto una grandissima festa. E’ stata una giornata perfetta».

Uno dei tuoi canestri più importanti?

«Dico senza dubbio l’organizzazione di volontariato che ho fondato nel 2022 insieme alla mia famiglia, Amani Education ODV, nata per aiutare le popolazioni della Tanzania. Un paese al quale sono molto legato perché i miei genitori, che sono due medici volontari, hanno vissuto lì tra il 1988 e il 1990, e lì è nato pure mio fratello. Siamo tornati in Africa tutti insieme circa ogni due anni, fino a quando non ho iniziato a giocare nella Stella Azzurra. A distanza di quindici anni, sono tornato lì e ho capito che era il momento di fare qualcosa di concreto.

Nasce così il progetto della scuola secondaria a Kisaki, nella regione di Singida.

«Esattamente. È un vecchio progetto che si era arenato: sono arrivato su questa collinetta con le suore dell’Assunzione, insieme alle quali avevamo già lavorato in passato, e ho visto questa costruzione bloccata da tempo. Quindi torno a Milano, fondo l’associazione e inizio a raccogliere donazioni attraverso eventi: la città ha risposto alla grande. Adesso i lavori sono partiti, intanto nel 2024 è cominciata la scuola: 30 ragazzi e ragazze hanno fatto parte della prima classe, adesso sono 92, più 6 insegnanti, 2 cuoche, 2 guardiani e 4 suore che vivono all’interno della struttura. È come se mi fossi detto: “se non lo faccio io, non lo fa nessuno”.”Make it happen”, ossia farlo accadere, che è il motto che mi ha accompagnato durate tutta la carriera».

Alle fine del libro dici che hai scoperto il bisogno di perdonare e perdonarti.

«È la parte in cui mi sono emozionato di più. Perdonare il basket per quello che mi ha tolto: io gli ho dato tutto e spesso lui non mi ha dato indietro abbastanza. E perdonare me stesso, perché sono andato dietro ad una ricerca spasmodica della perfezione, dando sempre la precedenza allo sport, anche in maniera morbosa, perdendomi contatti importanti e non godendomi a pieno alcuni momenti della vita. Questo libro mi ha aiutato a “fermarmi” un attimo e a perdonarmi per aver chiesto troppo a me stesso. Alla fine dei conti, però, non ho rimorsi: se non avessi rinunciato a certe cose, non sarei arrivato fin qui».

Robin si è tolto la maschera, rivelando il suo percorso di crescita, quello che l’ha reso il campione di oggi.

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