In missione con “Medici senza frontiere” (FOTOGALLERY)

In missione con “Medici senza frontiere” (FOTOGALLERY)
Pubblicato:

Prima il Nepal poi lo Yemen e ora “la voglia di ripartire il prima possibile”. Il medico anestesista novarese Luca Carenzo, 31 anni, è tra i 242 operatori umanitari partiti dall’Italia con Medici Senza Frontiere per andare a portare assistenza sanitaria alle popolazioni di ogni parte del mondo colpite da conflitti, epidemie, catastrofi naturali. “Mi sono laureato in Medicina all’Università del Piemonte orientale nel 2010 – comincia a raccontare Luca – Poi ho iniziato la specializzazione frequentando anche il Crimedim (Centro di Ricerca Interdipartimentale in Medicina di Emergenza e dei Disastri ed informatica applicata alla didattica ed alla pratica Medica, ndr) diretto dal professor Francesco Dellacorte, l’unico soggetto universitario che ha una convenzione con Medici senza frontiere per la formazione e la selezione di operatori da inviare in missione. E’ così che anche io mi sono avvicinato a questa organizzazione e dopo uno specifico iter formativo nell’autunno del 2015 sono partito per il Nepal. Poco dopo sono ripartito per lo Yemen. In entrambi i casi la mia missione è durata circa sei settimane, essendo uno specialista ho potuto fare un periodo più breve rispetto ad altre figure generiche”.

“Sono state due esperienze molto diverse: in Nepal il terremoto era avvenuto già qualche tempo prima (il 25 aprile 2015, ndr) quindi vi si svolge attività di medicina generale di comunità senza particolari vincoli di sicurezza; in Yemen invece essendoci il conflitto ancora in corso si trattava di operare in mezzo a una crisi umanitaria e con regole molto precise”. “Spesso la situazione è più difficile di quanto ci si immagina – prosegue il medico novarese – oltre alla preparazione ci vuole molta flessibilità, capacità di adattarsi all’ambiente in cui si opera. Si deve saper lavorare in team internazionali, i cui i due terzi sono composti da personale non sanitario, c’è un grosso lavoro di logistica e organizzazione. Importante anche la presenza di operatori locali: questo perché i progetti di Medici senza frontiere non sono a durata indeterminata. L’obiettivo è quello di portare aiuto ma anche di formare personale del posto che poi così può continuare l’operato autonomamente”.

“Sono contesti molto difficili e spesso non si può rispondere a tutte le richieste, si vorrebbe fare di più – prosegue - In Nepal mi trovavo a Charikot, a 5 ore di auto a est di Katmandu: ero nell’unico punto di assistenza sanitaria nell’arco di svariati chilometri, ci arrivavano persone che impiegavano anche due giorni di viaggio per venire a farsi visitare. Si tratta di una zona molto vicina alla seconda scossa, le macerie erano ancora lì, l’ospedale ancora seriamente danneggiato. Mi occupavo di fornire assistenza medica cosiddetta di primo livello, gastroenteriti, polmoniti, crisi respiratorie o cardiologiche. Negli ultimi casi potevamo solo stabilizzare il paziente e poi inviarlo a Katmandu”.

“Sia in Nepal sia in Yemen le persone avevano molta fiducia in noi: in Italia diamo per scontato che le cure siano gratuite, cosa che invece non succede in molti altri Paesi. MSF opera gratuitamente e questo è una grossa attrattiva per la popolazione”. Inoltre MSF è assolutamente un’organizzazione neutra che fornisce assistenza a tutti indipendentemente da questioni etniche, religiose, politiche o militari.

“Si tratta di un lavoro molto stancante ma anche molto gratificante – continua Carenzo – si fa poca diagnostica strumentale e molta clinica e spesso ti trovi da solo a dover fare scelte importanti, è una grossa occasione di crescita anche personale. Per fortuna comunque c’è il team che ti supporta, si fanno molte riunioni per confrontarsi e affrontare i problemi insieme”.

In Yemen l’esperienza è stata più difficile: “Lì il conflitto va avanti da marzo 2015 con bombardamenti e combattimenti, quindi dal punto di vista medico si trattava di operare più in ambito di traumatologia e chirurgia. Mi trovavo a Saada, la vita era divisa fra l’ospedale e l’alloggio. Vedere arrivare continuamente persone, molti anche bambini, che rimarranno lesionate o mutilate a vita a causa della guerra a un certo punto ti fa pensare “ma che senso ha tutto questo?”. La guerra avrà delle conseguenze negative a lungo termine anche in termini economici, insomma un’intera società danneggiata e chissà quanto tempo ci metterà a recuperare”.

L’attività giornaliera è abbastanza impegnativa in missione: “Lavoravo dalle 8 del mattino alle 8 di sera più la reperibilità notturna e quella per le maxiemergenze, cosa che è successa cinque volte durante la mia permanenza in Yemen”.

Luca Carenzo, è sposato e ha una bambina piccola: “Potevo chiamare a casa una volta alla settimana. Il pensiero della famiglia mi sosteneva molto e loro mi hanno sempre supportato in questa mia scelta. Spero di ripartire presto e anche se non so esattamente come sarà il mio futuro vorrei rimanere con Medici senza frontiere: quello che mi spinge è il desiderio di poter fare qualcosa subito per i pazienti ed anche quello di essere parte di progetti a lungo termine per lo sviluppo dei paesi in cui opera MSF”.

Valentina Sarmenghi

 

Prima il Nepal poi lo Yemen e ora “la voglia di ripartire il prima possibile”. Il medico anestesista novarese Luca Carenzo, 31 anni, è tra i 242 operatori umanitari partiti dall’Italia con Medici Senza Frontiere per andare a portare assistenza sanitaria alle popolazioni di ogni parte del mondo colpite da conflitti, epidemie, catastrofi naturali. “Mi sono laureato in Medicina all’Università del Piemonte orientale nel 2010 – comincia a raccontare Luca – Poi ho iniziato la specializzazione frequentando anche il Crimedim (Centro di Ricerca Interdipartimentale in Medicina di Emergenza e dei Disastri ed informatica applicata alla didattica ed alla pratica Medica, ndr) diretto dal professor Francesco Dellacorte, l’unico soggetto universitario che ha una convenzione con Medici senza frontiere per la formazione e la selezione di operatori da inviare in missione. E’ così che anche io mi sono avvicinato a questa organizzazione e dopo uno specifico iter formativo nell’autunno del 2015 sono partito per il Nepal. Poco dopo sono ripartito per lo Yemen. In entrambi i casi la mia missione è durata circa sei settimane, essendo uno specialista ho potuto fare un periodo più breve rispetto ad altre figure generiche”.

“Sono state due esperienze molto diverse: in Nepal il terremoto era avvenuto già qualche tempo prima (il 25 aprile 2015, ndr) quindi vi si svolge attività di medicina generale di comunità senza particolari vincoli di sicurezza; in Yemen invece essendoci il conflitto ancora in corso si trattava di operare in mezzo a una crisi umanitaria e con regole molto precise”. “Spesso la situazione è più difficile di quanto ci si immagina – prosegue il medico novarese – oltre alla preparazione ci vuole molta flessibilità, capacità di adattarsi all’ambiente in cui si opera. Si deve saper lavorare in team internazionali, i cui i due terzi sono composti da personale non sanitario, c’è un grosso lavoro di logistica e organizzazione. Importante anche la presenza di operatori locali: questo perché i progetti di Medici senza frontiere non sono a durata indeterminata. L’obiettivo è quello di portare aiuto ma anche di formare personale del posto che poi così può continuare l’operato autonomamente”.

“Sono contesti molto difficili e spesso non si può rispondere a tutte le richieste, si vorrebbe fare di più – prosegue - In Nepal mi trovavo a Charikot, a 5 ore di auto a est di Katmandu: ero nell’unico punto di assistenza sanitaria nell’arco di svariati chilometri, ci arrivavano persone che impiegavano anche due giorni di viaggio per venire a farsi visitare. Si tratta di una zona molto vicina alla seconda scossa, le macerie erano ancora lì, l’ospedale ancora seriamente danneggiato. Mi occupavo di fornire assistenza medica cosiddetta di primo livello, gastroenteriti, polmoniti, crisi respiratorie o cardiologiche. Negli ultimi casi potevamo solo stabilizzare il paziente e poi inviarlo a Katmandu”.

“Sia in Nepal sia in Yemen le persone avevano molta fiducia in noi: in Italia diamo per scontato che le cure siano gratuite, cosa che invece non succede in molti altri Paesi. MSF opera gratuitamente e questo è una grossa attrattiva per la popolazione”. Inoltre MSF è assolutamente un’organizzazione neutra che fornisce assistenza a tutti indipendentemente da questioni etniche, religiose, politiche o militari.

“Si tratta di un lavoro molto stancante ma anche molto gratificante – continua Carenzo – si fa poca diagnostica strumentale e molta clinica e spesso ti trovi da solo a dover fare scelte importanti, è una grossa occasione di crescita anche personale. Per fortuna comunque c’è il team che ti supporta, si fanno molte riunioni per confrontarsi e affrontare i problemi insieme”.

In Yemen l’esperienza è stata più difficile: “Lì il conflitto va avanti da marzo 2015 con bombardamenti e combattimenti, quindi dal punto di vista medico si trattava di operare più in ambito di traumatologia e chirurgia. Mi trovavo a Saada, la vita era divisa fra l’ospedale e l’alloggio. Vedere arrivare continuamente persone, molti anche bambini, che rimarranno lesionate o mutilate a vita a causa della guerra a un certo punto ti fa pensare “ma che senso ha tutto questo?”. La guerra avrà delle conseguenze negative a lungo termine anche in termini economici, insomma un’intera società danneggiata e chissà quanto tempo ci metterà a recuperare”.

L’attività giornaliera è abbastanza impegnativa in missione: “Lavoravo dalle 8 del mattino alle 8 di sera più la reperibilità notturna e quella per le maxiemergenze, cosa che è successa cinque volte durante la mia permanenza in Yemen”.

Luca Carenzo, è sposato e ha una bambina piccola: “Potevo chiamare a casa una volta alla settimana. Il pensiero della famiglia mi sosteneva molto e loro mi hanno sempre supportato in questa mia scelta. Spero di ripartire presto e anche se non so esattamente come sarà il mio futuro vorrei rimanere con Medici senza frontiere: quello che mi spinge è il desiderio di poter fare qualcosa subito per i pazienti ed anche quello di essere parte di progetti a lungo termine per lo sviluppo dei paesi in cui opera MSF”.

Valentina Sarmenghi